Esportare la democrazia. Una frase udita piuttosto frequentemente negli ultimi anni, che fonda la sua ragione d’essere su un paradosso che rasenta l’assurdità: portare la pace con la violenza.
Sarebbe anche nobile l’intento di difendere libertà e diritti dei cittadini oggi libici, ieri iracheni o ieri l’altro afgani. O se non proprio nobile, per lo meno potrebbe essere il male minore se confrontato con la crudeltà dei tiranni locali, spregevoli usurpatori dei loro popoli e dissacratori di qualsivoglia diritto umano, finanche il più banale. Peccato però che per gli stessi paladini la libertà non abbia sempre egual valore. Darfur, Ruanda, Burundi, Sudan, Somalia; sono solo alcune della tante zone del mondo invisibili, dove ogni giorno si combatte, si soffre, si muore.
Territori violentati e devastati dalla guerra, in cui l’orrore è quotidiana ed inaccettabile normalità. Zone messe a dura prova da Dio, e dimenticate anche dall’uomo. Latitudini in cui i piccoli non hanno infanzia, strappata loro dalle nefaste logiche del conflitto. Bambini soldato addestrati alla violenza, il cui sguardo a 7 anni ha già perso ogni lampo di vita. Bambini che non giocano alla guerra come i più fortunati fanno solo davanti alla PlayStation, ma che la guerra sono costretti a farla per davvero. Anche questa parte del mondo grida strenuamente aiuto, al cospetto di una comunità internazionale sorda o, più verosimilmente, non interessata ad agire.
Dobbiamo allora pensare che esita Sofferenza e sofferenza? E’ evidente di no, per chi la violenza la subisce. Altrettanto non può dirsi per chi è chiamato a far qualcosa, mosso non dallo spirito ma esclusivamente dall’interesse. E’ così allora che i diritti del popolo libico, o di quello iracheno che si voglia, e presumibilmente di quello iraniano che sarà, diventano magicamente degni di attenzione da parte della comunità internazionale. Al punto tale da far istantaneamente rombare i motori dei caccia francesi, nell’attesa che l’ONU partorisse quella che sarebbe poi passata alla storia come la risoluzione n° 1973. Mentre le grida del Darfur, del Ruanda o della Somalia restano ancora lì, strozzate in gola, trasformandosi da urla vigorose in rantolìo affannato. Ed è così che la guerra per la democrazia si trasforma in guerra d’interesse: troppo breve è il passo che le separa, spesso inscindibile.
Sciocco anche soltanto chiedersi quale sia questo valore in gioco. Il petrolio ovviamente, su cui l’Occidente si fonda e per cui l’Occidente combatte, senza mancare alcuna occasione. La sfortuna delle popolazioni ugualmente massacrate, ma invisibili al resto del mondo, è che sotto la terra che sorregge i loro piedi e le loro disgrazie non scorre oro nero, unica materia in grado si suscitare l’attenzione dei potenti. Allo stesso modo la già citata risoluzione ONU n° 1973, che in questi giorni ha dato il via libera all’intervento militare, si è selvaggiamente trasformata dall’imposizione di una “no-fly zone” per la difesa degli insorti contro gli attacchi aerei di Gheddafi, in bombardamenti su Tripoli e sul bunker del Raìs. L’ostinatezza e soprattutto la rapidità con la quale il primo ministro francese Nicolas Sarkozy ha spinto per l’intervento aereo della Coalizione, lasciando praticamente intentati i pur numerosi canali della diplomazia, svela l’intento a questo punto neanche troppo mascherato di volersi accaparrare importanti interessi economici in Libia. Paese, vale la pena sottolineare, che fino a ieri e sotto Gheddafi ha chiuso la porta alle compagnie petrolifere francesi, imputando ai transalpini la colpa di aver sostenuto ed armato i ribelli del Ciad nel conflitto del 1983 contro la Libia stessa.
Ovviamente la situazione muterebbe radicalmente una volta sovvertito il Generale, con la Francia in posizione di vantaggio nel trattare rapporti economici con il nuovo governo degli insorti, aiutati nel loro intento di prendere la guida del Paese. Altro che Liberté, Égalité, Fraternité: Sarkozy in Libia vuole esportare solo la TOTAL, compagnia petrolifera di Stato. La speranza è che la comunità internazionale si desti presto dal sonno, riprogettando l’intervento e indirizzandolo, questa volta davvero, alla difesa dei cittadini libici. Ma anche in tal caso si tratterebbe solo del male minore: in Ruanda, Sudan, Somalia, Darfur e Burundi la gente continua a gridare. Ma le urla si stanno affievolendo, giorno dopo giorno, dopo giorno…
Vincenzo Mugione
23 marzo 2011