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Mezzogiorno (ri)unificato (il Roma)

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di Gerardo Mazziotti - Il Roma
Fosse vera la diagnosi di alcuni scienziati americani, ripresa e amplificata da alcuni colleghi italiani, noi meridionali dovremmo solo spararci. Si sostiene, grosso modo, che la questione del Mezzogiorno non dipende dalla incapacità della sua classe politica (affermano il contrario la stragrande maggioranza degli italiani e dei politologi), né dalla inettitudine della sua borghesia parassitaria (ma Gerardo Marotta ne denuncia da anni la voracità), né dalla insufficienza dei finanziamenti per il suo sviluppo (ma il senatore Nicola Rossi sostiene che sono troppi) né dalla nefasta influenza della criminalità organizzata (ma col suo sopravvalutato Gomorra Roberto Saviano attribuisce ai casalesi le maggiori responsabilità). Tutto dipende dall’antropologia.

Come dire che, secondo la scienza biologica che studia le caratteristiche morfologiche, fisiologiche e psicologiche delle popolazioni umane, “tutti i popoli che sono nati e vivono nella fascia del sole sono indolenti, accidiosi, privi di immaginazione e mal disposti alla fatica”. Come, appunto, i napoletani, secondo una vecchia leggenda metropolitana. E, dato che noi meridionali siamo nati e viviamo nella fascia del sole, dobbiamo sottoporci a un paziente, doloroso e lunghissimo processo di “mutazione antropologica” se vogliamo riscattarci dalle nostre condizioni di sottosviluppo.

Per la verità, già Gaetano Salvemini diceva cent’anni fa che “la questione del meridione è essenzialmente una questione di meridionali”. E di “antropologia” parlò anche il Grande Timoniere Mao quando sostenne che per costruire una società comunista cinese era necessario costruire “un uomo nuovo”, attraverso la spietata distruzione delle classi sociali. Una operazione molto complessa (intellettuali mandati a lavorare nelle campagne e nelle fabbriche e operai mandati a insegnare nelle scuole) costata lacrime e sangue e che è andata a finire come sappiamo.

Sono tra quelli che non danno alcun credito a queste teorie antropologiche. Non foss’altro perché questi stessi meridionali, nati e vissuti nella fascia del sole, sono stati capaci di realizzare a Caserta la più bella Reggia del mondo, la prima ferrovia da Napoli a Portici, la prima fabbrica di porcellane a Capodimonte, il primo teatro lirico d’Italia con il San Carlo, la prima industria siderurgica a Mongiana, il primo ponte sospeso sul Garigliano, il primo villaggio operaio a Ferdinandea e la prima industria della seta a San Leucio, i grandi cantieri navali a Castellammare di Stabia (e oggi la Fincantieri minaccia di chiuderli). E facevano parte di un grande Paese che era tra i più ricchi e più ammirati d’Europa. Come dimostra la vasta produzione di questi anni di “controstorie” sulla violenta conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie.

Il guaio è che adesso il Mezzogiorno è frantumato in sette regioni. Campania, Molise, Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, che da dipartimenti amministrativi di un Regno sono state trasformate in unità politico-economiche dai risultati fallimentari. Lo dimostrano gli oltre trent’anni di esperienza delle Regioni, diventate veri e propri centri di potere in contrapposizione al Governo e al Parlamento nazionali, carrozzoni della partitocrazia, centri di assistenza clientelari, grandi catafalchi dell’inefficienza e dello sperpero a causa di una spesa sanitaria capace di impegnare ingenti risorse finanziarie in servizi insoddisfacenti, al di sotto degli standars europei. Talchè continuo ad essere convinto che la soluzione dei problemi esistenziali dei meridionali sta nella istituzione di una macroregione. Con gli stessi 18 milioni di abitanti di Pechino, Shanghai, Mumbay, San Paolo…. I napoletani continuano invece a trastullarsi dal 1945 con la elezione di sindaci, convinti di amministrare un’isola in mezzo al mare e incapaci di comprendere che Napoli che deve diventare una città metropolitana destinata a (ri) assumere il ruolo di capitale del Mezzogiorno (ri)unificato.

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