Cambiare perché tutto cambi

Non è facile descrivere ciò che accade a Napoli in questi ultimi tempi. Il rischio di ripetersi è forte sebbene la disponibilità di spunti per una riflessione sullo “stato dell’arte” sia pressoché infinita. Ci si può avventurare in una gimcana letteraria tra le buche stradali o in una salutistica traversata descrittiva dei tossici suoli dell’ex polo industriale di Bagnoli e della venefica colmata. Magari dopo i tre canonici puntini sospensivi delle interminabili attese alla fermata dell’A.N.M. In alternativa ci si potrebbe dedicare all’epica degli autobus perduti nello sperpero d’ingenti e pubbliche risorse finanziarie o alla critica della ragion pratica che ha prodotto la traumatica mutazione di un luogo simbolo come la Caracciolo in un’apoteosi del kitsch. Qualunque sia l’itinerario scelto, con ogni probabilità ci si ritroverà all’ombra di Palazzo San Giacomo.

A ben guardare tuttavia, tra le sfumature cromatiche della quotidianità, emergono non poche ed obbrobriose anomalie riconducibili a ben altre responsabilità. Le famigerate devastazioni della storica Villa comunale, i degradati e/o sprangati edifici - laici e religiosi - del centro storico, il territorio sfregiato dalle discariche per i rifiuti, il mancato decollo dei grandi progetti per il risorgimento economico di Napoli, come si sarebbe detto agli inizi del Novecento.


Non una delle statue e delle fontane che si trovano lungo i viali e gli slarghi del giardino vanvitelliano è scampata alla furia degli impuniti vandali. La Cassa Armonica di Enrico Alvino, l’area monumentale “A. Diaz” di Gino Cancellotti, le lacerazioni delle superfici della villa vanvitelliana asservite all’area tecnica dell’inutile Ltr, le baccanti, il fauno il gladiatore, la fontana della flora Farnese, il monumento ai caduti durante il colera del 1884, la fontana di Castore e Polluce, i busti di Bovio, Carducci e De Marinis, i monumenti a Scarfoglio, Toma, Settembrini, Vico, Colletta, Cottrau, Alvino, Tasso, costituiscono le stazioni di un’ininterrotta e dolorosa “via crucis” lastricata da accidia e degrado.

Il Grande Progetto “Centro Storico di Napoli, valorizzazione del sito Unesco” con gli ormai famosi 100 milioni di euro per il recupero strutturale e funzionale di alcuni edifici e complessi monumentali, ancor prima di prendere corpo mostra impudicamente tutti i suoi limiti. Gli interventi – non molti - saranno rivolti ad un’area racchiusa in poco più di un km quadrato con insignificanti ricadute occupazionali.

Il nuovo Piano regolatore del Porto che dovrebbe migliorarne la funzionalità ed aumentarne la competitività stenta a decollare. Com’è nella sua lunga storia, il cambiamento è, infatti, ostacolato dai lacci e lacciuoli della burocrazia e dalle spinte conservatrici di lobbie che operano nel comprensorio portuale. L'attuazione delle indicazioni dello strumento urbanistico, oltre la concessione dei finanziamenti europei, potrebbe attrarre – secondo stime dell’Autorità portuale – investimenti pubblici e privati per un miliardo e 300 milioni di euro e creare così migliaia di nuovi posti di lavoro. Ed invece, Napoli sta rischiando di perdere i finanziamenti della Comunità europea ed ancora una volta la faccia.

La Procura della Repubblica di Napoli ha recentemente posto sotto sequestro le aree dell'ex Italsider e dell'ex Eternit di Bagnoli, alla periferia di Napoli, a seguito di un’indagine che ipotizza il reato di disastro ambientale. Un intervento encomiabile seppur oggettivamente tardivo. La prima denuncia del professore Gerardo Mazziotti sulle irregolarità contabili (mancata rendicontazione) della BagnoliFutura, sull’efficacia della bonifica e sulla violazione della Merloni Ter risale, infatti, al 12 maggio 2003. A questa ne seguirono numerose altre ad iniziativa del Comitato per la difesa dei beni culturali e ambientali di Napoli e della Campania, di Italia Nostra, del Comitato giuridico di difesa ecologica. Tutte senza visibili effetti.

Citazioni emblematiche certo, rappresentazioni di una porosità negativa che si sostanzia giorno dopo giorno di agnosticismo e fatalismo. Testimonianze di una specularità comportamentale di enti ed istituzioni locali. Una specularità che fa da sfondo alla grande questione napoletana che non risiede in una presunta incapacità gestionale delle sue classi dirigenti, quanto nell’assoluta inesistenza di coesione sociale e nell’inamovibilità di una “brontocrazia” conservatrice ed autoreferenziale.

L’accusa che il qualunquismo dilagante rivolge spesso ai politici di ogni risma, riguarda la capacità esclusiva che essi avrebbero di curar bene i propri interessi. In realtà, essi, non indenni da colpe anche gravi e responsabilità, rappresentano soltanto la parte più esposta, ed in qualche misura condizionata, dell’articolazione del potere. Un potere che ha il suo faro irradiante nella borghesia delle professioni e nella borghesia intellettuale. Quella borghesia che – per dirla con Claudio Scamardella – tra nomine, passaggi di carriera, nepotismi, gestione indiretta del flusso di denaro pubblico è il più grande centro di conservazione e il coacervo di “articolati” interessi che hanno contribuito all’immobilità di Napoli.

L’immobilismo quindi non è solo un dato fenotipico della città, un segno distintivo di un raggiunto equilibrio tra le comunità che la vivono. Esso è soprattutto uno strumento di resistenza al cambiamento, di difesa dei privilegi di una borghesia refrattaria ad ogni impegno comunitario. Di quelle èlite borghesi che assicurano la continuità oltre l’alternanza delle compagini politiche, impedendo di fatto sostanziali cambiamenti.

Qualche tempo fa, Paolo Macry ha dato alle stampe un pregevole volume (“Ottocento”, Il Mulino) in cui poneva in luce i meccanismi di trasmissione dei patrimoni e l’intreccio tra le identità sociali, le strategie economiche, ed i ruoli dei familiari in funzione dell’auto-conservazione della casta nel delicato passaggio verso la modernità. Chissà se l’emerito cattedratico prenderà mai in considerazione di mettere in chiaro le relazioni, i meccanismi e le strategie – ormai non più dettate da mere ragioni di sopravvivenza - che le èlite della modernità hanno posto in essere per difendere ed incrementare le rendite provenienti dalla posizione sociale.

La città a quel punto, con l’aiuto di dati e stringenti argomentazioni scientifiche, potrebbe chiedere al Governo non nuovi fondi o leggi speciali, ma l’estensione degli effetti della legge n.286 del 24 novembre 2006 (Spoils system), ossia la cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza nelle amministrazioni degli enti locali, Asl, Regione e degli organismi statali territoriali col mutare delle compagini politiche deputate al governo dagli elettori. Tale procedura è spesso definita negativamente perché creerebbe una perniciosa dipendenza dell’amministrazione dalla politica, cosa che in realtà avviene già anche senza lo spoils system. In realtà, l’alternanza dei  dirigenti apicali e la riduzione dei tempi della loro permanenza nei ruoli tornerebbe molto utile per eliminare l’asfissiante e paralizzante continuismo della burocrazia fonte dell’accumulo di numerose fortune - personali e familiari - e consentirebbe di dar vita ad una sinergia leale, fertile ed armoniosa tra amministrazione e politica avente per unico obiettivo la cura degli interessi popolari.
Lidio Aramu