I Buddha di Bamiyan

I 'tweet' di de Magistris, manifesto per la 'rivoluzione'
Non tutti sono a conoscenza del fatto che il sindaco di Napoli ama affidare ai tweet gli imperativi categorici della sua “rivoluzione”, la sintesi del demagistris-pensiero.
La loro lettura però lascia a dir poco sconcertati per l’abuso della retorica. L’ampollosità sgorga dall’auto-convincimento del primo cittadino di essere un Conducator alle prese con la sua personale rivoluzione.
“Solo movimenti politici rivoluzionari, pacifici, non violenti, possono rompere il sistema di poteri il cancro che vive di deviazione di Stato” ha scritto messianicamente de Magistris. Scartando per ovvie ragioni il Rivoluzionario dell’anno 0, ha in tutta evidenza inteso calarsi nelle candide vesti del Mahatma Gandhi.


La Rivoluzione arancione ha appena mosso i primi passi, pur essendo già trascorso oltre un anno dal suo avvento, ed ha quindi bisogno di ripetere ossessivamente – ricalcando le orme del dottor Goebbles – le sue verità con la speranza che qualche cosa resti nell’immaginario collettivo.

Ha scritto Donald Fleming che “ogni rivoluzione che possa dirsi tale ha tre componenti principali: un atteggiamento specifico verso il mondo, un programma per trasformarlo in modo essenziale e una fiducia incrollabile che questo programma si possa realizzare: una visione del mondo, un programma e una fede.” Un trinomio totalmente sconosciuto ai rivoluzionari per caso.

L’accostamento della cosa arancione ad una vera rivoluzione è improponibile anche se – come di solito accade – ha già mangiato alcuni dei suoi figli migliori (Narducci e Realfonzo).  Del resto, il programma elettorale di de Magistris era ben lontano dall’essere un manifesto rivoluzionario.

Non avendo quindi prodotto nessuna apprezzabile mutazione nella gestione del Comune, il ghost writer del sindaco si è sentito quindi in dovere di “tuittare” l’ennesimo magniloquente imperativo: “No al capitalismo, no al socialismo reale, sì all'economia dei beni comuni, sì al profitto sociale, il capitale umano prima di quello economico”. Sarebbe oltremodo semplice confutare punto per punto le “demagogistriche” affermazioni. In realtà, a prescindere dalla sostanza, l’anonimo scrivano confida, utilizzando come il manzoniano Azzeccagarbugli, frasi roboanti e senza senso, di dare un carattere al governo degli arancioni e carpire la buona fede del popolo.

Sembra di essere tornati al XVIII secolo, quando i comuni erano governati da piccole oligarchie, ove poche famiglie amministravano secondo intenti particolari lontani dagli sguardi del pubblico e senza alcuna responsabilità di fronte ad esso.

Altro che “no al capitalismo”. Ad est come ad ovest della città imperano i soliti nomi ed il rilancio economico ancora una volta è affidato ai palazzinari, mentre “illuminati” imprenditori riducono a brandelli, privatizzandoli di fatto, pregiati pezzi del tessuto urbano.

Altro che “si al profitto sociale”. L’amministrazione arancione prende a pretesto il calo dei residenti in città, dovuto a tanti motivi tranne che alla carenza abitativa, per dare il via ad altre insopportabili cementificazioni ad oriente come ad occidente. Mentre in altre parti d’Italia si recuperano le case operaie ottocentesche, si costruiscono pubblici parchi sulle aree di sedime degli opifici, si creano centri di aggregazione sociale, a Napoli, lungo il fronte di via nuova Bagnoli, il rilancio turistico dell’area dell’ex polo industriale passerà per una lunga teoria di fabbricati alti 13 piani.

L’unico atto rivoluzionario arancione per eccellenza è la sottrazione di via Caracciolo alla sua funzione primaria in stridente violazione con la destinazione d’uso fissata dal Piano regolatore vigente e dei vincoli paesaggistici. Però a guardar bene non è l’unico.
In attesa che la mancata manutenzione continui a far degradare parchi (virgiliano), strade panoramiche (via Virgilio), pubbliche aree a verde di periferia, l’Amministrazione ha provveduto a: devastare la Cassa Armonica di Enrico Alvino (1877), sfregiare il giardino storico della Villa Comunale, alterare – ovviamente in negativo - lo skyline di Via Caracciolo (baffi della scogliera e “casatielli” vari), vilipendere il monumento ad Armando Diaz (1934). La rivoluzione probabilmente continuerà con la costruzione di una pista ciclabile all’interno della Crypta Neapolitana in opposizione al decreto di V. Emanuele III che elevava il complesso virgiliano al rango di monumento d’interesse nazionale. Di questo passo con ogni probabilità, l’eremo di San Martino diventerà una base di lancio per gli amanti del parapendio, il Maschio Angioino un b&b, il Palazzo s. Giacomo un decoroso ricovero per clochard ed homeless.

Nel suo delirio rivoluzionario, l’immaginifico sindaco deve aver letto della rivoluzione culturale di Mao Zedong e delle sue guardie rosse nel corso della quale furono irrimediabilmente distrutte mirabili testimonianze delle antiche architetture cinesi, classici della letteratura e della pittura. O deve ancora avere negli occhi la distruzione (2001) dei colossali Buddha nella valle di Bamiyan in Afganistan per opera dei talebani.

Le rivoluzioni costano carissime e richiedono immensi sacrifici avrà detto in cuor suo Luigi de Magistris. Bisogna scassare il passato, cancellare la memoria storica della città.
Peccato per lui e la sua corte estatica ed adorante, che la civiltà di un popolo, parafrasando il mahatma Gandhi, si misura dal modo con cui tratta i suoi beni culturali. E noi napoletani, grazie ai rivoluzionari da burletta, siam messi proprio male.
Lidio Aramu
21 agosto 2012