Federico Salvatore, un’artista “contro”

Federico Salvatore non è più il comico da cabaret che conquistò una grande fetta di pubblico nazionale negli anni 90. Non lo è più già da almeno 10 anni, ma in pochi sembrano essersene accorti. Da Quando ha smesso di far soltanto ridere, di Federico Salvatore si sono quasi perse le tracce. Almeno per quella tv generalista che lo ha prima osannato come fenomeno nazionalpopolare, ai tempi di “Azz” e poi condannato all’oblio.

Nel 2002 l’artista nato nel quartiere Stella partecipa alla nuova edizione del Festival di Napoli con la sulfurea e incazzata “Se io fossi San Gennaro”. Un brano che, oltre a segnare una svolta nel suo percorso artistico, rompe polemicamente i fili che legano Napoli e la napoletanità ad un passato oleografico di pizza e mandolino. A dissociarsi da quel brano, che conteneva attacchi per nulla velati a politici e operatori culturali e terminava con l’augurio di una nuova eruzione del Vesuvio, sono in molti, prima tra tutti la conduttrice della kermesse Enrica Bonaccorti.

Da allora l’ostracismo è stato rotto solo dall’ospitata a “casa” di un altro bastian contrario del piccolo schermo, Gianfranco Funari. Ed è un vero peccato per la tv e, soprattutto, per la cultura di questo paese perché Federico Salvatore si dimostra autore dalla lucidità disarmante, erede di quella ricerca “in direzione ostinata e contraria” di cui siamo orfani.

I testi degli ultimi dischi parlano di politica, camorra, emarginazione sociale. E lo fanno con lo sguardo disincantato di chi senza retorica, ricostruisce una realtà scomoda, indigeribile per il senso comune. Come in Napocalisse, tratta dall’album Pulcin’ Hell: Na cartolìn é nèpl ancora bianca e nera /a tùt e n'operaj, quànd na ciminera,fàcètt o cìl nìr chjù nér e n cummoglie,pe cummiglià bagnoli e avvelenà coroglio /nero comm é nuttàt schiaràt senza stelle /nero comm sò e lacrime e tutte e femminielle /nero comm e furmiìc  arét a u scarrafone/ si a sòrt ner e napl e a chésta procession /(mille speranze au juorn aret a n'estrazione / ottantamila anim aret a nu pallone /centomila cantant arét a n'illusione /tropp dunnill ancor aret a nu zulfon.

Federico Salvatore torna a Teatro e lo fa portando in scena un originalissimo teatro canzone in dialetto che non sfigura davanti al modello dichiarato del Maestro Gaber e in cui impegno civile e politico si  mescolano a un gusto atavico per lo sberleffo e la provocazione.

Se il talento viene declinato, dai Salemme ai Siani, nella reiterazione dei più triti luoghi comuni per Salvatore Fare il napoletano stanca e il paese di pulcinella è più che altro un Pulcin-Hell

Federico Salvatore non si è "messo a fare il serio” per posa o per elevarsi al rango di intellettuale di riferimento e la sua pungente ironia è quella di sempre. Il ragazzo di “Azz”, parodia di una Napoli in cui  “tra Posillipo e Toledo ci divide un vecchio muro /come quello di  Berlino che ci spacca in due meta'/ Uno e' figlio 'e papà l’altro  e' figlio 'e bucchin” è cresciuto; i tic di una napoletanità parodia di sé stessa di  “Incidente al Vomero” sono diventati gli orrori di un’invasione straniera, che mina alla base ogni futuro di unità nazionale in “Monumento”:  E cosi spalancai  /ogni porta e cancello al Fratello d'Italia con le piume al cappello/ Ma il fratello divenne il mio boia,/ ogni donna di casa una troia/  per la legge che spoglia Gesù per vestire i Savoia. E nella piazza dell'Unità/ tra due politici quaquaraquà, fecero il Gran Monumento alla Libertà. Ma sulla base del marmo eretto/ c'era una frase scritta in dialetto: "Quanno siente ca figlieto chiagne pecchè vò magnà,/ mò ralle 'nu piezzo e stà libertà"
Stefano Vosa

 

Per info sui prossimi spettacoli di Federico Salvatore consultare il sito ufficiale dell'artista: federicosalvatore.it