L'orda barbarica ed il Grillo parlante

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Vi è un’immagine che più di altre stringe il cuore dei napoletani. Non occorre andarla a cercare nel dedalo dei vicoli del Centro storico o nei deserti alienanti delle periferie, là dove il degrado continua ad avanzare incontrastato su edifici religiosi e palazzi nobiliari, nelle arti e mestieri, nell’anima e nel corpo di questa martoriata città. E’ sotto gli occhi di tutti, distesa com’è lungo uno dei luoghi simbolo di Napoli che un’incolta minoranza s’incaponisce a chiamare “lungomare liberato” e a vilipendere con eventi imposti da una potestà d’imperio incondizionata, mai vista a Napoli prima dell’era de Magistris.
E’ la rappresentazione desolante e desolata che offre alla vista il quadrilatero delimitato dalla Riviera di Chiaia, Piazza Vittoria, Via Caracciolo, Piazza della Repubblica. L’area su cui Ferdinando IV volle creare un pubblico spazio, il “Real passeggio di Chiaja”.

Guardandola si fa fatica a riconoscere in essa la Villa comunale. La rarefazione del verde ed il tufo polveroso e giallastro dei viali la rendono più simile ad un lembo di terra sub sahariana che pure avrebbe un suo fascino se gli scassi a trincea, gli “sfettamenti”, le camere di ventilazione - tutti effetti collaterali della realizzazione della linea 6 della metropolitana - non costituissero un’imperdonabile offesa alla storia ed alla cultura della città.

E lo sostengo senza tema di essere tacciato di gretto passatismo o di nonsipuotismo. Non sono i lavori in sé ad indignarmi quanto gli effetti permanenti che produrranno sul bene culturale. So bene che la villa comunale fin dagli inizi della sua realizzazione, comportò una profonda e progressiva modifica dello stato dei luoghi provocando, come scrive Alexandre Dumas, tumulti dei pescatori e delle lavandaie che si vedevano privati di un largo tratto di spiaggia e dei lavatoi. Tengo a mente che lo stesso Anton Dhorn costruì la sua Stazione Zoologica andando ben oltre le dimensioni e le cubature autorizzate dal Comune. E non mi scandalizzano neanche le cancellate, le supposte d’acciaio e gli allegri baretti di Mendini, stravaganti punti d’onore dell’emblema del kitsch napoletano o la fisiologica mutazione delle quinte botaniche. Quello che m’irrita è l’esistenza di un’intoccabile orda barbarica dai mille volti e senza età che, pezzo dopo pezzo, continua impunemente a deturpare e/o a cancellare dal mosaico della memoria storica napoletana irriproducibili tasselli. 

Esattamente quello che sta facendo l’Ansaldo Trasporti con la Villa comunale. Nei fatti sta alterando forme e dimensioni dello storico giardino vanvitelliano. Ed in quest’opera distruttiva è in buona compagnia come dimostrano il vandalismo di cui è oggetto il patrimonio monumentale della Villa e gli oltraggiosi sfregi arrecati alla Cassa Armonica di Enrico Alvino e all’area monumentale “Armando Diaz” di Gino Cancellotti e Francesco Nagni, a futuro ricordo della prima Vuitton cup.

Non mi sorprende. Del resto, anche in questo deprecabile ambito, l’amministrazione arancione manifesta uno stucchevole continuismo. Quello che sconcerta è invece l’omologazione comportamentale in cui il tratto unificante è dato da un silenzio indefinibile, della Soprintendenza, Magistratura, degli ordini professionali, del mondo della cultura e persino delle associazioni ambientaliste. Silenzio a volte spezzato da isolate seppur autorevoli e coraggiose “Voci della ragione”.

A Napoli, il Grillo parlante per antonomasia è il professor Gerardo Mazziotti, autore di numerosi e documentati volumi sui fatti e misfatti interessanti l’architettura, l’urbanistica, la politica locale e nazionale. Questa volta la Coscienza critica ricorda alla città – e per essa al Direttore regionale e al Soprintendente provinciale ai Beni architettonici – la sconcertante scomparsa del fregio decorativo che si ammirava sul prospetto dell’Arena Flegrea.

Con il memorandum inviato alle due autorità, egli riporta alla ribalta la brutta vicenda dell’abbattimento e ricostruzione della magnifica struttura di Giulio De Luca, tra le più significative e funzionali della Mostra d’Oltremare. Pur registrando il dissenso manifestatogli da insigni accademici – tra i tanti Carlo Cocchia e lo stesso Gerardo Mazziotti - l’ormai ottuagenario progettista (per la serie anche i luminari mangiano) ha dato corpo alla nuova Arena ricostruita “dov’era ma non com’era”. Alla fine del rifacimento disneilandiano, dal frontone del teatro all’aperto – notevolmente ridotto nelle sue dimensioni – sono scomparsi i mosaici con cui Nicola Fabricatore intese rappresentare in un’artistica sequenza che spaziava dalle Atellane fino al XVII secolo, figure e gruppi simboleggianti il teatro. Un’opera unica nel suo genere. Eppure…

Personalmente ebbi modo di chiedere al professor De Luca le ragioni che avevano determinato questa sua decisione. In un primo momento fu abbastanza evasivo, poi, forse per liberarsi del molestatore, mi raccontò che il progetto originario del ’38 non prevedeva alcuna decorazione. Fu una decisione dell’ultimo momento, adottata per dare del lavoro ad un’artista sponsorizzato dal Regime e che, in definitiva, l’opera non aveva un gran valore artistico.
Non pago della risposta, ripresi il discorso con il professor Raffaele Cercola, presidente della Mostra d’Oltremare S.p.A., il quale, con legittimo orgoglio, mi riferì di aver salvato alcuni mosaici togliendoli dai materiali di risulta e di averli collocati nel foyer dell’Arena a imperitura memoria.

Ma il nostro Grillo parlante, infinitamente paziente, non si arrende e ricorda che il parere favorevole della Soprintendenza al progetto della riedificazione dell’Arena era subordinato al riposizionamento – a lavori conclusi – dell’opera d’arte di Fabricatore sul nuovo frontone. Il mancato rispetto di questa prescrizione – configurando un’ipotesi di reato penale - induce quindi la nostra autorevole “Voce della ragione” a vagheggiare un intervento della Procura. Un desiderio da inguaribile ottimista.

Manco se la distruzione di un’opera d’arte fosse paragonabile ad una marchetta berlusconiana… E che il desiderio sia pio, sempre per rimanere nel perimetro dell’Oltremare, è ben presto dimostrato. Per caso, dalle cronache cittadine risulta qualche intervento della Procura o della Soprintendenza in seguito alla totale distruzione del padiglione delle Forze Armate di Bruno La Padula e quello del Lavoro italiano in Africa di Gherardo Bosio? Quale Pubblico ministero, Soprintendente o Accademico ha preteso mai la ricostruzione delle Serre botaniche di Carlo Cocchia ritenute universalmente un capolavoro dell’architettura razionalista?

Domande retoriche. Il sindaco de Magistris ha annunciato nel corso di una recente intervista televisiva, l’avvio settembrino di una non meglio precisata riqualificazione di via Partenope e via Nazario Sauro. Si tratta evidentemente di un intervento straordinario che potrebbe modificare lo skyline della litoranea ove si affacciano preziose testimonianze della storia dell’architettura novecentesca: i grandi alberghi, i palazzi di Gino Coppedè (Palazzo Galli) e Giovanni De Fazio (Palazzo Cosenza), la sede della Facoltà di Economia e Commercio di Roberto Pane, il borgo marinai con il castel dell’Ovo, il porticciolo di Santa Lucia. Un’area di grande pregio paesaggistico e di grande valenza storica, non una strada qualsiasi. Ciò nonostante, non è stato presentato alcun progetto. E non mi pare che si siano udite indignate proteste per la bruciante offesa arrecata ai fondamenti dell’urbanistica partecipata. Defilati nella grigia routine del quotidiano, tacciono tutti, il Consiglio comunale, la Soprintendenza, la Procura, gli Ordini professionali, le accademie, l’università, le associazioni ambientaliste.

La verità vera è che i beni culturali, le aree di pregio della città, sebbene rappresentino, soprattutto per il loro valore immateriale un bene comune, continuano ad essere l’oggetto di quell’inconfessabile, antico e scellerato patto tra affarismo, illegalità e politicantismo. Il salvacondotto dell’orda barbarica.
Lidio Aramu